Green pass. Persone transgender costrette a continui coming out forzati: “si trovi una soluzione”

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In questi giorni è tutto un gran parlare di green pass, un argomento che ha polarizzato ancor più le posizioni tra chi è totalmente a favore e lo vede come uno strumento per garantire sicurezza e combattere la pandemia, e chi invece si dichiara contrario e lo considera una violazione della privacy, un metodo per ghettizzare chi non si è vaccinato e dividere tra “cittadini di serie A e cittadini di serie B”. Fino a spingersi ad arginare la norma, acquistando online certificati verdi fasulli, poi rivelatisi inutilizzabili: la notizia è diventata virale sui social.

Il dibattito però non tiene in alcun conto la posizione di chi, pur essendosi vaccinato e avendo un green pass regolare da esibire, una profonda violazione della propria privacy la vive davvero, perché il certificato verde, essendo nominativo, costringe ad un coming out forzato le persone transgender e non binarie.

Per frequentare qualunque luogo al chiuso, dal ristorante, ad una mostra o un cinema, siamo tutti chiamati a mostrare il green pass, sul quale è riportato il QR code accompagnato dal nostro nome anagrafico, che nel caso delle persone transgender alle prese con il complesso e tortuoso iter della rettifica anagrafica, non corrisponde al nome con il quale sono conosciute in società e all’aspetto mostrato.

Per cercare di venire incontro alle loro esigenze, il Gruppo Trans ha portato avanti un’iniziativa, una sorta di help card da esibire assieme al green pass, dove si riporta la dicitura “sono una persona trans, per favore evita domane o commenti che possano espormi pubblicamente”. Non si tratta di una soluzione ottimale, lo spiegano anche sul loro sito, ma un modo per mettere “una toppa su un grosso buco” generato dallo Stato e al quale il Ministero della Salute dovrebbe porre rimedio.

“Servirebbe almeno una carriera alias”, spiega Cinzia Messina, madre di Greta, la ragazzina 14enne transgender di Ravenna, che negli ultimi mesi sta girando l’Italia assieme alla mamma per promuovere il libro sulla loro esperienza, “Io sono io”, col quale provano a fare informazione sulla vita delle persone trans.

È quanto già succede in alcune scuole ed università: la persona si iscrive con i propri dati anagrafici, ma poi possiede un badge (nel caso dell’università) che mostra anche il nome d’elezione, quello cioè che la persona ha scelto e con il quale è conosciuta in società.

“Sarebbe un passo importante per tutelare l’autodeterminazione delle persone che si trovano nella fase di transizione”, aggiunge Messina.

“Se prima questi coming out forzati avvenivano in situazioni di straordinaria amministrazione, se venivi fermato in macchina o andavi a fare una visita medica – precisa il dott. Martin Benini, transgender di 28 anni di Ravenna -, oggi col green pass è molto più problematico. Spesso si confonde il pensiero della comunità Lgbt+ con quello no vax. Non è che in quanto persone trans non ci si voglia vaccinare o sottoporre a tampone (con green pass provvisorio, comunque nominativo), ma non condividiamo il fatto che, dovendo esibire il green pass, i nostri dati sensibili siano alla mercé di tutti, costringendoci a dichiararci di fronte a persone che vediamo per la prima volta e che forse non incontreremo mai più, mettendoci a rischio di possibili vessazioni”.

“Se vogliamo mantenere la nostra socialità, c’è un’unica alternativa – aggiunge provocatoriamente Benini, che condivide solo parzialmente  l’utilizzo dell’help card, vissuta comunque come uno strumento che non preserva la privacy e non elimina il problema alla radice, perché si pone come “l’ennesimo adattamento alla cultura retrograda della società” -: stampare il green pass di un amico/a, da esibire nei locali, venendo però costretti ad un’operazione non trasparente, che mette a rischio di commissione di reati. Altrimenti ci si chiude in casa. Ad oggi una soluzione intermedia non c’è”.

Il problema nasce dall’iter complesso e dai tempi biblici richiesti per la rettifica anagrafica. Intanto, bisogna essere maggiorenni. Poi, occorre un percorso medicalizzante, da intraprendere privatamente o attraverso i pochi centri multidisciplinari esistenti, che costringe a passare tramite valutazioni psichiatriche e psicologiche, fino ad arrivare ad una diagnosi di disforia di genere. In pratica, si esclude che il disagio vissuto dalla persona derivi da patologie psichiatriche e lo si riconduce alla mancata corrispondenza tra il sesso biologico e quello elettivo. A questo punto, si può avere accesso alla terapia ormonale, concordata con un endocrinologo. Con tutta questa mole di dati raccolti, ci si sceglie un avvocato e si fa richiesta al tribunale per la rettifica anagrafica, che diventerà effettiva solo quando la sentenza sarà passata in giudicato. Un percorso che può durare mesi, ma anche anni, sempre ammesso che il giudice non ritenga necessaria una CTU (consulenza tecnica d’ufficio), che lievita ulteriormente i tempi, oltre a rendere più incerto il risultato.

“La sottoposizione a terapia ormonale – precisa Benini – non è condizione sine qua non per avviare il processo ma di certo è una prova forte, diciamo così, a sostegno della richiesta, visto che ci troviamo immersi in una cultura per la quale donne e uomini, per essere considerati tali, devono corrispondere a determinati canoni estetici: se chiedo di essere riconosciuto uomo e mostro barba e baffi, è più probabile che non mi vengano mosse rimostranze”.

Contestualmente alla rettifica anagrafica può essere richiesto anche l’accesso agli interventi per l’adeguamento di genere (cioè la riattribuzione chirurgica del sesso), ma non è più obbligatoria la sterilizzazione forzata e completa, che vigeva fino al 2015. Una persona trans potrebbe desiderare semplicemente di uniformare i propri documenti al sesso di elezione, senza bisogno di ricorrere a ormoni o interventi.

Tutto questo tortuoso procedimento medicalizzato e burocratico ha dei costi, psicologici ed economici, non sempre alla portata di chiunque. “Un avvocato privato – spiega Messina – può chiedere anche 6mila euro”.

“Quando una persona inizia questo percorso non ha alternative, non è una scelta – commenta Benini -. È davanti alla prospettiva di ottenere il riconoscimento di ciò che è o il suicidio, perché il resto non è vita. Non essendo un’alternativa, si è davvero molto spaventati, perché chi ti valuta ha il potere di decidere del tuo futuro”.

In attesa di modifiche legislative e un percorso più agevole e veloce che permetta alle persone trans di vedersi riconosciute, una strada per rendere l’esibizione del green pass più rispettosa della privacy c’è: “Come per le carriere alias universitarie, il Ministero della Sanità potrebbe emanare una sorta di green pass di facciata, con il nome d’elezione, a seguito di una diagnosi di disforia di genere, ad oggi purtroppo ancora obbligatoria”, chiude Benini.

A proposito dei coming out forzati e dei disagi che devono fronteggiare quotidianamente le persone trans, è emblematico il racconto di Messina, circa un episodio capitato recentemente a sua figlia Greta.

Lei frequenta le superiori e per recarsi a scuola usa il bus. Fare l’abbonamento sarebbe la soluzione più pratica, ma sul documento sarebbe stampato il nome anagrafico da cui lei non si sente ovviamente rappresentata. Per ovviare al problema e sollevare la giovanissima dall’imbarazzo, mamma e papà hanno scelto di acquistarle i singoli biglietti, un sistema decisamente più oneroso, ma che la mette al riparo dal dover fornire spiegazioni.

È capitato però che un giorno abbia smarrito il biglietto e sull’autobus che la riportava a casa abbia incontrato il controllore che, come è naturale, le ha fatto la multa. La discrepanza tra il nome fornito e quello con il quale è registrata all’anagrafe ha fatto nascere un qui pro quo che ha messo in grande difficoltà Greta.

“Noi abbiamo un accordo – spiega Cinzia, la mamma -: se si trova in una situazione nella quale non se la sente di dare spiegazioni, deve chiamarmi al telefono e ci penso io. D’altronde, Greta ha solo 14 anni, è minorenne”.

Il controllore però, forse pensando che la giovane volesse semplicemente sottrarsi al pagamento della multa, fornendo un nome falso, ha cominciato a farle pressioni e alla fine la ragazzina, spaventata e imbarazzata, si è vista costretta a dichiarare il suo nome anagrafico. Poi è riuscita a chiamare la mamma in lacrime.

Cinzia si è recata alla fermata dell’autobus e si è resa disponibile a pagare quanto dovuto per l’assenza del biglietto, ma è rimasta mortificata che alla figlia non sia stato permesso fino all’ultimo di chiamarla, per risolvere la faccenda.

“Il controllore mi ha assicurato che con lui non capiterà più – spiega Cinzia -, ma non esclude che un problema simile possa accadere nuovamente con dei colleghi, altrettanto disinformati. Per questo, sia io che il padre di Greta ci siamo attivati presso Start Romagna, per proporre un basilare corso formativo su come interagire con le persone trans e anche per introdurre la carriera alias, che ci permetterebbe di acquistare l’abbonamento. Per ora non abbiamo avuto alcuna risposta”.

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