Nidil Cgil. In provincia di Ravenna per le donne retribuzioni più basse e minori possibilità di assunzione a tempo indeterminato

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La ricerca, promossa da Nidil Cgil di Rimini, Ravenna e Reggio Emilia e le Consigliere di Parità di Rimini, Ravenna e Reggio Emilia, curata dall’Università di Urbino e Ires Emilia-Romagna, dal titolo “Che genere di somministrazione” si propone di investigare le condizioni di lavoro e le forme di discriminazione presenti nel lavoro in somministrazione in una prospettiva di genere.

Questa mattina, lunedì 22 novembre, la ricerca è stata presentata, alla Camera del lavoro di Ravenna, da Serena Savini, segretaria generale del Nidil Cgil Ravenna, e da Carmelina Angela Fierro, consigliera di parità della Provincia di Ravenna: “Oggi presentiamo i primi dati della ricerca – hanno detto – che si concluderà nei primi mesi del 2022, si articola su tre direttrici: l’analisi dei dati (Ebitemp-Inail, Inps, Siler), la somministrazione di un questionario e interviste a testimoni privilegiati per cogliere più in profondità le dinamiche discriminatorie”.

In provincia di Ravenna, nel 2020, Ebitemp – Inail stimano una media annuale di 3.208 lavoratori in somministrazione (di cui 29,6% donne).

Nel 2020, il lavoro in somministrazione cala del 12,9% a Ravenna (-13,3% per le donne).

La lettura per genere e nazionalità mostra tendenze diverse. Nel Ravennate la contrazione dei somministrati è più rapida per la componente straniera (-17,8% a fronte del -10,8% per gli italiani) con una velocità di caduta più rapida per le donne (-23% a fronte del -9,4% per le italiane) rispetto agli uomini (-15,7% a fronte del -11,4% per gli italiani).

Un contratto di somministrazione solo raramente porta a un contratto stabile e, nel caso, è più probabile che accada se il lavoratore è maschio. In media nel triennio 2018-2020, entro i 6 mesi successivi al termine di un contratto di somministrazione a Ravenna avvia un altro contratto il 78,9%, di cui il 14,7% a tempo indeterminato (15,1% per gli uomini e 14,1% per le donne).

Il part time, spesso involontario, è molto diffuso anche nel lavoro in somministrazione: in media in Emilia-Romagna il 34,4% dei lavoratori in somministrazione nel pre-pandemia era part time con quote più basse della media regionale a Ravenna (27,8%). Il lavoro part time è principalmente femminile: a Ravenna il 51,2% (a fronte del 15,4% maschile).

In fase pre-pandemia, l’analisi della struttura retributiva tra lavoro dipendente, complessivamente inteso, e lavoro in somministrazione rileva l’insistenza del gender wage gap anche nel lavoro in somministrazione e un divario retributivo sulla giornata retribuita tra lavoro dipendente e lavoro in somministrazione; A Ravenna la retribuzione media annua lorda di chi lavora in somministrazione è il -54,4% in meno della media del lavoro dipendente e questo dipende soprattutto per un numero di giornate retribuite medie in meno, che è nella natura del lavoro in somministrazione (-45,5%) ma anche da una retribuzione lorda giornaliera più bassa del -16,4% che apre a delle riflessioni sul principio di parità di trattamento retributivo. Inoltre, a Ravenna le donne in somministrazione, rispetto ai lavoratori maschi in somministrazione, lavorano il -24,6% delle giornate in meno, hanno una retribuzione lorda annua del -33,4% in meno e una retribuzione giornaliera del -11,7% in meno.

Insieme all’analisi dei dati amministrativi, il percorso di ricerca si arricchisce di una indagine condotta nei territori di Rimini, Ravenna e Reggio Emilia ai lavoratori e lavoratrici in somministrazione: degli oltre 400 accessi all’indagine il 51,4% è rappresentato dalla componente femminile. Alcune letture parziali ci consentono di affermare che:

  • Oltre il 60,8% degli uomini e il 63% delle donne lavora in somministrazione per impossibilità di trovare un lavoro alle dipendenze della impresa utilizzatrice. Mentre il 26% degli uomini e il 21% delle donne vede nel lavoro in somministrazione una opportunità di accesso al mercato del lavoro;
    In chiave contrattuale si rileva come solo raramente ai lavoratori in somministrazione venga proposta la stabilizzazione e ancor più raramente alle le donne: al 22% degli uomini è stata proposta una assunzione a tempo indeterminato a fronte del 13% delle donne;
  • Nel colloquio con l’agenzia di somministrazione al 48% delle donne sono state poste domande sulla condizione familiare (matrimonio, figli, anziani..) e l’83% sulla disponibilità al lavoro (straordinari, flessibilità), in linea con la componente maschile. Sorprende invece come al 42% degli uomini siano state poste domande sulle prospettive di carriera mentre solamente al 23% delle donne, come se la carriera fosse prerogativa solo maschile;
    il 29% delle donne e il 32% degli uomini del nostro campione afferma di essere stato vittima di discriminazioni, violenze, molestie o ricatto sul luogo di lavoro;
    se si limita l’analisi a chi si percepisce vittima di discriminazione, notiamo come la percentuale di donne a cui nel colloquio conoscitivo con l’agenzia di lavoro vengono poste domande sulla condizione familiare cresca al 60%, mentre per gli uomini rimanga sostanzialmente invariata al 44%;
  • considerando le diverse dimensioni della qualità del lavoro, le lavoratrici in somministrazione (38%) risultano più insoddisfatte dei lavoratori in somministrazione (30%). Le regioni della più alta insoddisfazione vanno ricercate dove si rileva il maggior gap di genere ovvero nella mancanza di crescita professionale e la mancanza di programmabilità di vita futura: per entrambe le dimensioni, in una scala da 1 a 10, i maschi danno un voto basso (4,5) ma le donne un voto altamente insufficiente (3,5);
  • l’insoddisfazione, tuttavia, essendo legata alla percezione dipende anche dalla soggettività del singolo. A tal proposito si rileva nell’analisi della dimensione identitaria, come tra gli uomini la visione strumentale, ovvero chi guarda al lavoro solo in chiave economica e non come modalità di realizzazione della propria persona, sia più alta: 64% per gli uomini e 57% per le donne;
  • Da quanto appena illustrato emergono alcune riflessioni sulla somministrazione di lavoro e sulla condizione di genere in questa tipologia contrattuale.

A trainare il calo dell’occupazione generale registrato dall’ISTAT nel 2020 sono stato il lavoro a termine ed il lavoro autonomo.

Il calo percentuale del lavoro in somministrazione registrato nel 2020 anche nella nostra provincia ci conferma l’effetto negativo in termini occupazionali della pandemia, che ha colpito maggiormente le categorie più vulnerabili del mercato del lavoro, tra cui rientrano le lavoratrici ed i lavoratori in somministrazione.

Già i dati dell’ISTAT ci comunicavano una maggior incidenza del calo di occupazione tra le donne e gli under 35, ciò è confermato anche dai nostri dati che rilevano una diminuzione maggiore nella componente femminile rispetto a quella maschile, con un’incidenza percentuale maggiore a Ravenna e Rimini rispetto a Reggio Emilia.

A Ravenna, a differenza delle altre due province, si evidenzia un’ulteriore categoria di soggetti maggiormente fragili, ovvero le donne straniere. Infatti in questo caso nei tre territori per i lavoratori e le lavoratrici stranieri/e in somministrazione si registrano andamenti differenti: a Rimini così come a Reggio Emilia il calo della componente straniera è in linea con quello italiano, a Rimini interessa maggiormente gli uomini stranieri rispetto alle donne straniere. Stessa cosa a RE che però registra un andamento in controtendenza del lavoro straniero femminile in somministrazione che nel 2020 subisce un aumento (+2,5%).

Un contratto di somministrazione solo raramente porta ad un contratto stabile e quando ciò accade in percentuale interessa in maniera maggiore gli uomini. Questo ci costringe a porci degli interrogativi sulla reale efficacia delle politiche attive del lavoro nel nostro paese, anche di quelle demandate ai soggetti/enti privati, quali sono le Agenzia per il Lavoro.

In particolare, la somministrazione di lavoro non sembra funzionare come strumento di politica attiva del lavoro, non rivelandosi porta di accesso al lavoro stabile, bensì un mezzo per garantire una certa flessibilità alle aziende e quindi la possibilità di aumentare e ridurre più agevolmente il numero di lavoratori e lavoratrici assecondando le fluttuazioni e gli andamenti del mercato.

Ne consegue che la somministrazione resta uno strumento di precarietà piuttosto che strumento di promozione dell’occupazione di qualità, in particolare per le donne, che hanno meno alternative e minori prospettive future, come emerge dai questionari, nonostante ciò pare che per le donne, ancora più che per gli uomini, il lavoro sia maggiormente un mezzo non solo di sostentamento economico ma anche di realizzazione personale.

I dati della nostra ricerca ci comunicano che esiste un divario retributivo tra lavoro dipendente e lavoro in somministrazione in termini di giornate lavorate nell’anno e di retribuzione lorda giornaliera; inoltre all’interno della somministrazione di lavoro si evidenzia un gender gap retributivo tra donne e uomini.

Il divario esiste dunque sia tra lavoro in somministrazione e lavoro dipendente che tra donne e uomini somministrati/e.

Ciò ci indica che anche nel nostro territorio non viene data piena applicazione, sebbene il legislatore l’abbia chiaramente previsto, al principio di parità di trattamento retributivo (e normativo) tra lavoratori a tempo determinato o indeterminato, somministrati o assunti direttamente dalle aziende.

Se indaghiamo all’interno della somministrazione di lavoro la discriminazione di genere oltre che sussistere sul piano economico insiste anche su altri elementi tra cui le pressioni e le domande poste sulla condizione familiare in sede di colloquio di lavoro.

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