ROMAGNA. NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE / 18 / Il Carnevale come ritualizzazione del caos originale: folla e follia, feste orgiastiche, balli e trasgressioni

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Le celebrazioni del Carnevale hanno in sé molte delle caratteristiche relative a un «capodanno» o perlomeno a un determinante momento di passaggio e di denso e delicato margine, quello fra l’inverno che declina e la bella stagione che si avvicina. Prevedono, infatti, attraverso la raffigurazione del sovvertimento dell’ordine, dell’orgia alimentare e comportamentale, di una ostentata promiscuità, di codificati ma concreti segni di una «violenza» perlomeno simbolica, la riattualizzazione del caos originale e quindi l’annullamento del tempo, propedeutico a una sua periodica rifondazione.

Annullamento che passava anche attraverso riti espiatori e di cancellazione dei mali, delle colpe e dei problemi accumulati nel ciclo temporale che si concludeva, non di rado denunciati nei cosiddetti «testamenti» o «processi» di Carnevale durante i quali si elencavano e rendevano noti diversi segreti e magagne della comunità e soprattutto di singoli suoi componenti (esposti così alla derisione o riprovazione, in un meccanismo che, come nel sacramento cristiano, consentiva l’eliminazione e il perdono dei «peccati» mediante una loro confessione, qui non spontanea e privata ma, peggio, giungente dall’esterno e pubblica), spesso trasposti in forme satirico-letterarie che prendevano nomi diversi a seconda delle aree del nostro Paese (ad esempio bosinade, narcisate, ecc.).

Carnevale

Poi vi sono evidenti riti di rinnovamento del tempo: il rogo o comunque l’«esecuzione» del fantoccio di Carnevale o la cacciata del «re per un giorno» raffigurano la fine e il superamento del caos, da cui può nascere e ripartire, rinnovato e mondato, il nuovo tempo. Fine necessaria ma che viene pianta, perché col caos e con questo intermezzo intenso del festivo finiscono anche le libertà sfrenate, le licenze, il consumo sovrabbondante di cibo (la parola Carnevale deriva quasi certamente da carnem levare, a significare la chiusura del periodo in cui, complice la recente macellazione dei maiali, c’è stato un consumo abbondante di carne e grassi), di vino, di dolci (in Romagna tipici quelli fritti, le sfrappole, le chiacchiere, le castagnole, ecc.), e torna la condizione quotidiana che, se pure purificata dal rito periodico, è comunque di nuovo legata al bisogno, all’ordine consueto delle cose e delle gerarchie, alle regole.

Non mancano le maschere (anzi sono uno degli elementi più importanti della festa), che possono rimandare anche a una morfologia rituale e simbolica tipica delle celebrazioni manistiche, soprattutto quando esse divengono questuanti o invadenti, a rappresentare che nel «tempo magico» della festa trovano modo di irrompere nella dimensione terrena e di imporre un loro ruolo gli esseri numinosi per eccellenza, i Defunti e gli Antenati.

Carnevale

Maschere di Carnevale

Come in ogni momento di rinnovamento del tempo, Carnevale prevedeva anche usanze tese e un rinnovamento della comunità, che doveva passare attraverso quello dei suoi ranghi: così questo era un periodo che, oltre alla festa, agli scherzi e agli eccessi, faceva registrare numerosi festini e incontri dedicati al ballo e al corteggiamento, preludio necessario per la formazione di nuove coppie che avrebbe portato a nuove nascite. Anzi in passato si può dire che, in Romagna come altrove, a livello popolare si ballasse soprattutto (per non dire solo) a Carnevale, cioè nel periodo che andava più o meno dal giorno di Sant’Antonio Abate, 17 gennaio, al Martedì Grasso, quando ciò era non solo consentito, ma previsto quale componente essenziale della festa.

Insomma nel periodo carnevalesco, molto atteso e partecipato (a differenza di oggi, perché questa festa ha perso mordente e importanza, essendo cambiato profondamente il contesto culturale e sociale), si assommavano molti intenti ed elementi, in un insieme multiforme e così complesso che per l’etnografo e l’antropologo culturale non è facile da districare. Notava efficacemente Camporesi:

«Il mito carnevalesco presuppone una cosmologia naturalistica fondata sopra la morte e la rinascita della natura, sulla quale s’innestano i riti propiziatori evocanti le vicende astrali, le scansioni lunari, l’avvicendarsi delle stagioni, profondamente legate ai cicli agrari stagionali. Il carnevale è intimamente connesso alla fede nella renovatio mundi, al sentimento della rinascita perenne e immancabile, alla vicenda ininterrotta dell’alternarsi della vita e della morte nella natura e nell’uomo, all’immagine consolante dell’eterno ritorno. Carnevale è infatti il perpetuo ritornante, la personificazione di una trama cosmica sempre ricucentesi, di una vicenda interrotta ma mai definitivamente spezzata; perché, morto, rinasce; bandito, esiliato, bruciato, puntualmente ricompare ogni anno […]. Il suo ritorno, coincidente col nuovo ciclo agrario, è motivo di grandi tripudi; la sua presenza gioiosa e confortante va celebrata con feste, balli, giuochi, scherzi, mascheramenti, travestimenti, eccessi conviviali, licenze d’ogni ordine» (P. Camporesi, Il paese della fame, Bologna 1985, p. 175).

Del «festivo» relativo ai giorni carnevaleschi facevano parte, dunque, anche giochi, spettacoli e forme ludico-antagonistiche rientranti nell’eccezionalità dei comportamenti e delle temporanee libertà e licenze, capaci di dare sfogo a pulsioni e tensioni, di rappresentare certe istintualità, di figurare e «risolvere» contrasti e ruoli, oltre a fungere da riti sacrificali e da «necessarie» instillazioni di una violenza che veniva in questo modo liberata ma circoscritta nello spazio e nel tempo del festivo.

Carnevale

In proposito possiamo citare le crudeli e sanguinarie «cacce al toro» che si svolgevano in ambito urbano e le «battagliole» (scontri fisici coinvolgenti anche o soprattutto bambini e ragazzi di diversi quartieri). Esisteva un quid di brutalità in varie espressioni della celebrazione, dall’aggressività delle maschere alle immancabili risse nei festini e nei balli. E aggiungiamo a ciò la pesantezza degli scherzi e delle battaglie rituali e simboliche messe in atto, magari dall’alto dei carri mascherati, con scambi di lanci di frutta e altro (pensiamo solo, per fare un esempio noto, alla «battaglia delle arance» del Carnevale di Ivrea); in Romagna, qua e là si assisteva al lancio, fra schiere opposte, di confetti, gesso e arance: materiali bianchi da una parte, simboleggianti la neve dell’inverno, colorati e ricoprenti una simbologia solare (le colorate e sferiche arance) dall’altra; insomma, una sorta di scontro fra le stagioni, quella fredda che deve finire e quella calda di cui si auspica l’arrivo.

Carnevale

Dunque nel Carnevale non mancavano elementi antagonistici, in qualche misura «violenti», declinati con le forme culturali e popolari del «drammatico». Del resto, come nota bene Franco Cardini, quello della festa (e soprattutto di una festa importante com’era il Carnevale) è anche un tempus terribile, perché ogni rifondazione ha caratteri di durezza e bisogno di forza: «morte della società, la festa ne è però al tempo stesso la resurrezione. La sua funzione principale sembra essere un esorcismo di proporzioni comunitarie contro le forze della distruzione e del caos […]. La festa è […] una sorta di terapia di gruppo, una forma di vaccinazione a livello psico-sociologico: inocula nella comunità festeggiante il virus della distruzione nella quantità necessaria e sufficiente a provocare una reazione immunizzatrice» (F. Cardini, I giorni del sacro. Il libro delle feste, Milano 1983, p. 43). Per questo la festa «può essere anche violenta, atroce» (Ivi, p. 44), così che l’essenza del Carnevale può essere individuata anche «come gioco di morte ed esorcismo contro la morte» (Ivi, p. 47).

Come le tradizioni di Carnevale si esprimessero in Romagna, lo vedremo nella prossima puntata.

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